Il calcio 🇮🇹 non è morto, ma neanche rinato: un anno buono non basta a dar torto a Mancini

La grande tradizione calcistica dell’Italia e l’innegabile impatto di concetti diversi da quelli nostrani che tanto affascinano allenatori, addetti ai lavori e appassionati hanno polarizzato in modo esasperato il dibattito sullo stato di salute dello sport più amato della Penisola. Lo Stivale si divide in due categorie che rifiutano di dialogare e di osservare una realtà abbastanza lontana dai rispettivi preconcetti: i conservatori e i rottamatori. I primi, ancorati a una proposta prettamente passiva la cui efficacia è sconfessata dalla storia recente, vedono nel nostro Paese un baluardo da preservare e non inquinare con idee futili e fuori dalle corde culturali di calciatori e mister, i secondi farebbero tabula rasa del passato tanto quanto del presente dimenticando che senza basi risulterebbe impossibile progettare qualsivoglia futuro.

Ad accompagnare chiacchiere che dovrebbero appartenere ai bar e invece imperversano attraverso media di vecchia e nuova generazione e conferenze stampa in cui chi allena decide di tenere il calcio fuori la porta ci sono i freddi numeri. Spietati verso chi eleva un movimento che produce da anni risultati quasi sempre opinabili, ma non troppo clementi anche con chi nega quanto di buono si è visto e si continua osservare a tutti i livelli. I Mondiali mancano dal 2014, le fasi finali degli stessi dal glorioso 2006. Nel frattempo, però, si è vinto l’ultimo Europeo e ci si è giocati la finale della competizione nel 2012. A livello di club non si assiste a un’affermazione in Champions League da quella dell’Inter nel 2010 e l’Europa League è rimasta un tabù insormontabile. La Juventus ha giocato due finali della massima competizione per club nello scorso decennio e l’Inter ha disputato una finale di EL nel 2020. La Conference League, inoltre, è stata vinta nell’unica edizione già conclusasi da una società italiana quale la Roma.

Già a un primo sguardo superficiale emergono contraddizioni significative. Che gli alti siano ben più rari dei bassi è evidente e innegabile, che gli acuti appaiano più come imprese che come affermazioni altrettanto. Negli ultimi anni, però, il calcio sta cambiando a livello globale e quella che poteva apparire come condanna si sta rivelando un’opportunità. La Premier League ha cambiato marcia e ha cannibalizzato ogni altra lega da un punto di vista economico. Anche la Liga sta perdendo vertiginosamente appeal: le uniche 3 squadre al mondo in grado di tenere il passo sembrano Real MadridBayern Monaco PSG. In uno scenario in cui l’egemonia finanziaria di un campionato appiattisce il livello di tutti gli altri competitor è più facile spiccare grazie a gestioni che prescindono dall’ampio uso di risorse. Se da un lato l’aspetto infrastrutturale rasenta l’indecoroso toccando il suo picco con la gestione dei settori giovanili, sul piano dirigenziale e tecnico l’Italia sta riaffermando una leadership.

La scuola di allenatori che si sta imponendo si affianca ad una che ha già ottenuto tanti successi. Influenze vecchie e nuove si contaminano a vicenda e rendono il nostro prodotto appetibile, originale e al passo coi tempi. In Inghilterra ha vinto già anni fa Antonio Conte, gli è succeduto Claudio Ranieri e adesso è la volta di Roberto De Zerbi che sta facendo grande un club medio-piccolo per il contesto Premier come il Brighton. Ora che in Europa sono tantissimi i club costretti a fare investimenti e programmazione con scarsi fondi, la qualità dei direttori sportivi si rivela un fattore che dà lustro al campionato. Ciò che ha realizzato Cristiano Giuntoli portando a Napoli Kim Min-jae Khvicha Kvaratskhelia ha del leggendario, ma non sono stati da meno al Milan nell’estate 2021 Paolo Maldini Frederic Massara. In uno sport che rincorre i calciatori, rinunciare a Gianluigi Donnarumma Hakan Calhanoglu a parametro zero riuscendo a vincere lo Scudetto è un segnale fortissimo. Pre-Covid hanno contato solo e soltanto i soldi, ora che tanti arrancano le idee sono tornate una discriminante pesantissima.

Se a ottimizzare le scarse possibilità d’acquisto mediante studio e analisi siamo bravissimi, a coltivare il talento di cui già disponiamo lo siamo molto meno. La convocazione in Nazionale di Mateo Retegui è un momento di rottura. Il CT della Nazionale Roberto Mancini ha lanciato un allarme e ha provato a risolvere nell’unico modo possibile il problema posto, ossia naturalizzando un argentino. Il punto è di quelli epocali: di centravanti spendibili ai vertici non ne nascono più. Il coordinatore delle Nazionali giovanili Maurizio Viscidi ha ben messo in risalto una questione prettamente tecnica, spiegando che la formazione delle prime punte è ormai troppo focalizzata sulle sponde e sul gioco con la squadra. Ciò che invece si trascura è l’importanza di quei movimenti e quegli approcci che permettono agli attaccanti di segnare con continuità. Tanto costituiamo un’eccellenza ai massimi livelli sul piano degli allenatori, tanto paghiamo carenze profonde per quanto riguarda lo stesso ruolo a livello giovanile.

La cultura del catenaccio ha fatto un giro larghissimo e si è consolidata come cultura del controllo del gioco. Il danno risiede nel fatto che a essere controllati sono in realtà i piccoli calciatori. L’ossessione per la tattica non è più rappresentata dalla linea bassissima, ma dallo scarico ossessivo, dai movimenti codificati, dal gioco inteso sempre e comunque come partita a scacchi. Poco spazio per l’1vs1, poco spazio per la tecnica individuale, poco spazio per tutto ciò che non è scontato e facilmente riproducibile e quindi richiederebbe più tempo per essere assimilato. Invece di preparare a uno sport dinamico e incentrato sulle continue scelte, in troppi hanno trasformato il mito della difesa a oltranza in quello del passaggio al compagno smarcato più vicino. La stessa paura, la stessa assenza di divertimento, la stessa ossessione per vittorie che non hanno ripercussione positiva alcuna sul futuro dei giovani stanno svuotando di estro una base a cui non manca il talento. L’idea di poter determinare il gioco da parte di allenatori che sarebbero chiamati a formare produce l’incapacità di determinarlo di chi scende in campo per eseguire e non per creare.

Con una scuola di portieri al top mondiale, una di difensori con poche vette eccelse ma comunque solida e una batteria di centrocampisti florida da ormai un ventennio, manchiamo clamorosamente negli ultimi 30 metri. Vantare 23 calciatori italiani schierati titolari (nessun Paese ha fatto meglio) ai quarti di finale delle tre Coppe Europee non risolve questo problema, anzi lo accentua. Basta un’analisi anche solo oculare per scoprire che, oltre ai Nazionali, si tratta per lo più di difensori e centrocampisti abbastanza in là con gli anni con un buon pedigree in patria e poca esperienza ai massimi livelli. Ciò non vuol dire che il dato sia privo di valore, ma che vada contestualizzato. Con un po’ di fortuna nei sorteggi di Champions, ma anche con tanti meriti, dopo anni di magra c’è la seria possibilità di arrivare in fondo in tutte le competizioni.

Il motivo risiede in quanto già espresso: ora che persino il Barcellona ha pesanti limiti in sede di mercato, è più semplice per l’Inter affrontare la certa vincitrice della Liga e ottenere risultato. I migliori calciatori sono condensati in una singola Lega bulimica e anche i Blaugrana sono costretti a schierare formazioni con più di una crepa. Il fato, particolarmente benevolo, sta facendo il resto. Può essere uno spiraglio di luce. Vincere e convincere genera risonanza, può attrarre qualche profilo più valido e riaccendere l’interesse del pubblico per la Serie A. Ciò non basterebbe, ma aiuterebbe a proseguire il percorso. Soltanto affrontando le due piaghe più putride del sistema, però, si può giungere alla creazione di un modello alternativo alla Premier in cui le tante abilità che ci contraddistinguono acquisirebbero rilievo. Bisogna investire su impianti contemporanei e svecchiare e ricalibrare il lavoro nei vivai. Senza questi due passaggi ogni splendida e romantica vittoria resterà di Pirro.

By Emanuele Garbato

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