Daniele Orsato è intervenuto al Festival dello Sport di Trento. L’ex arbitro si è raccontato nel corso dell’evento organizzato da La Gazzetta dello Sport, ripercorrendo la sua carriera e parlando del ruolo di direttore di gara. Di seguito le sue parole, riportate da gianlucadimarzio.com:
“Il campo mi manca. Mi mancano i miei compagni di squadra: non solo i miei assistenti ma mi manca la CAN, il mio gruppo. Mi manca la possibilità di dare consigli a loro. Arrivato alla fine mi piaceva tanto farlo. Ma soprattutto mi manca il campo.”
“Soprattutto mi manca la designazione: è il momento più atteso. Quando la ricevi e scopri magari la categoria è il momento più bello, insieme con la telefonata del segretario. Mi manca la chiamata del mercoledì pomeriggio“.
Ma quello che è stato uno degli arbitri più importanti del panorama italiano ha iniziato anche un po’ per caso: “Io volevo fare tutto tranne l’arbitro di calcio: a 10 anni giravo per casa con cacciavite e forbici perché volevo capire da dove venisse la luce. Andavo bene a scuola, volevano che facessi ragioneria, ma ero nato per fare l’elettricista. Ho fatto tre anni di questa scuola, poi il diploma e la chiamata dell’azienda. Mia mamma mi aveva fatto la borsetta in cuoio con le cuciture, andai in Vespa al primo giorno. Il mio sogno era quello, lo realizzai. La vita è veramente strana: un collega mi chiede se giocassi a calcio, gli rispondo di sì. Mi disse: “Vieni a fare l’arbitro di calcio”. Gli dissi che secondo me l’arbitro è uno sfigato. Lui mi rispose con una frase che anni dopo avrei sentito da Stefano Farina: “Non saprai mai cosa voglia dire fare l’arbitro se non lo hai mai fatto”. Mi sfidava: e quella sera andai al corso d’arbitri, accettai la sfida“.
Così è iniziato il percorso che l’ha portato in Serie A: “Io volevo andare a Vicenza, ma mio padre mi spedisce a Schio, a una ventina di chilometri. Il presidente ci spiegò le procedure, chiesi al barista quanti anni ci volessero per arrivare in Serie A. Lui mi rispose ironicamente: “Devi ancora diventare arbitro e già pensi alla Serie A?”. Tornai a casa e dissi a mia madre: “Tra sedici anni vado in Serie A”. Lei si girò dall’altra parte e riprese a dormire. Allora lo dissi a mio fratello. Il 4 luglio del 2006 mi chiamò Gigi Agnolin: ero promosso in Serie A, mi invitava a Sportilia. Mio fratello tirò fuori un foglio: c’era la data di 14 anni prima, e quella promessa. A dicembre 2006 esordii in Serie A. Era nato mio figlio grande da pochi mesi. Vidi mio padre entrare a Siena allo stadio, aveva l’accredito ma era così emozionato che voleva pagare il biglietto”.
Un amore che dura anche dopo il ritiro: “Anche oggi continuo a girare nelle sezioni per trasmettere la passione. Non voglio che i giovani arbitrino “alla Orsato”. Ma devono avere la mia abnegazione. Cosa vuol dire arbitrare “alla Orsato”? Scommettere su sé stesso, rischiare, sbagliare con la propria testa. Capire i propri limiti e quello in cui serve migliorare. L’insulto peggiore in campo? “Sei scarso”. Ne ho ricevuti tantissimi in campo, negli anni, e anche ora ne ricevo. Quando sbagliavo io, allora passava il messaggio che gli arbitri italiani fossero scarsi. Lo ricordo sempre a Massa, Guida e Mariani. A me i calciatori non hanno mai detto “sei scarso”; se me lo avessero detto li avrei buttati fuori“.
Il complimento migliore invece è stato un altro: “Nella relazione del mio primo osservatore c’era scritto: “Ha passione”. Io non ho mai avuto invidia, e sono sempre stato fortunato, ho avuto grandi maestri a partire da Stefano Farina. Cosa guardo in un arbitro? Quanta passione si mette, quanto si corre, il rapporto coi calciatori“.
Orsato ha parlato anche del suo modo di arbitrare: “In campo l’arbitro che decide deve prendersi la responsabilità di quello che fa. All’ingresso in campo i ragazzini che ci accompagnano vogliono prendere il pallone in mano. Ma io ho questo rito: con me i bambini sono rimasti sempre a mani vuote. Il gesto è un saluto alla mia famiglia: mi dicevano che non sorrido mai in campo, che sono troppo serio, diverso dalla vita di tutti i giorni. Mi dicevano che quando andavo al VAR avevo la faccia arrabbiata. È il gesto più bello della mia vita. Alla mia squadra arbitrale ho sempre fatto sentire la mia playlist: dovevano avere i miei occhi. Un arbitro non può andare in campo senza conoscere le squadre: come difendono, quali sono i giocatori che fanno blocco sulle punizioni, la loro attitudine, e poi chi ha più tendenza a cadere per terra”.
Un modo di arbitrare che lo ha portato anche in Champions League e ai Mondiali: “Quando mi ha chiamato Rosetti per darmi la finale, scoppiai a piangere in camera mia. Mio figlio rientrò in casa col cagnolino al guinzaglio e lo mollò. Mi disse solo: “Ma ti hanno dato la finale? Il Mondiale in Qatar è stato il massimo della mia espressione arbitrale. Nella finale di Champions mi è mancato il pubblico. Le maglie di Neymar e Lewandowski attorno alla mia: un’immagine che non dimenticherò mai.